Esonero.

il tempo vince sempre. sulle elezioni, sulle lezioni, sulla storia e sugli istanti che si mascherano senza gusto di eterno. vince il tempo. analisi: le uniche forze al suo gioco sono la stanchezza e la natura. non la natura della normatività o del genere, più che altro quella che si intuisce nella continuità senza soluzione di certe esperienze particolari, che si riconosce a posteriori. ovviamente a posteriori – altrimenti non si giocherebbe col tempo. problema: il tempo vince sempre, pur senza intenzione;  non tende a condurre in un luogo più che in un altro, né conosce lo spazio o le relazioni della grossa fiumana del resto con sé. gioca la stanchezza, per sempre valutata con poco interesse rispetto alla forza reale che muove: non si capisce bene il perché, gli uomini tendono a non riconoscerne il peso, rifiutano l’idea che proprio la fatica sia la circostanza più ricorrente nelle vicende di ogni sorta, e che tra tutti i fattori edificanti le note circostanze sia la stanchezza a far convergere e indirizzare tutti gli altri vettori verso l’azione. si considera azione il movimento in generale, non l’azione nella prassi: non si vogliono considerare gli ostacoli e le concrezioni, aria o uomini che siano. giocatore uno, la stanchezza. niente di più che il versante attivo dell’inerzia, il freno vivo, con la sua forza propria, che prescinde dal giudizio della fisica ed è potenza devastante. giocatore due, la natura, l’esperienza ripetuta. non servono esempi, ogni carattere tende verso certe prove, e qui la possibilità d’intenzione è illimitata. si ripete un’esperienza nel corso del tempo: la prima e la quarta volta differiscono necessariamente, eppure è possibile tendere verso lo stesso identico esito, e vederlo perfettamente realizzato e riconoscerne i contorni anche dopo tanti anni. è qui che il tempo s’innalza – nell’unico istante in cui si concede alla vista – dal campo di gioco, e si fa avvertire per quello che è: quello che vince sempre, perché non gioca. e stavolta vince per stanchezza, domani vincerà per natura, la prossima volta troverà oggetti ancora più stanchi e il suo trionfo sarà più chiaro. così si procede.

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Supponiamo

Supponiamo tante cose. Definire le cose, per i professionisti delle supposizioni: riempire lo spazio lasciato vuoto da quello che manca, con un nome. Scriverselo su una mano, perché si possa averlo sempre davanti ma lasciandolo libero di andarsene senza uccidere il corpo, è sintomo di un’esperienza che non si lascia accatastare. Se si ha carattere, si ha anche una propria tipica esperienza interiore, che ritorna sempre. C’era scritto, ricordo bene dove, che il tempo può ignorare tutta un’eternità. Ecco come tutto torna, non ci si lascia mica rallentare dal ricordo di qualcosa che somigliava a un  futuro possibile. Resta quello che avevamo supposto, o se ne va anche quello? E per quanto tempo pensa di occupare questa stanza? Abbiamo delle prenotazioni, un comitato centrale del partito occuperà trenta letti la settimana prossima, poi la squadra di rugby bangladese è piena di bambini intolleranti al lattosio, c’è da organizzarsi ecco. Tra qualche giorno si commemorerà qualche gran letterato, usciranno degli articoli per esperti del settore, e lei, signora, è una cliente un po’ invadente per tutti i nostri impegni. Ancora ci chiediamo perché abbia voluto sfondare la porta della sua stanza, quando le erano state fornite le chiavi; poi tutte quelle schifezze lasciate là sul letto…insomma. E’ un problema di aspettative, signora: noi siamo un’attività a conduzione familiare, abbiamo pochi dipendenti e tutti a tempo determinato, senza amore per questo tipo di mestiere. Per lei ci vorrebbe un grand hotel, di quelli che siano capaci di accoglierla con il facchino incravattato, che siano tanto organizzati da saper gestire le sue chiamate in reception alle 5 del mattino per chiedere che ora è; qua siamo tutti stanchi, la notte è lunga e le luci artificiali affaticano. Supponiamo che abbiamo sbagliato ad accettare il suo denaro. Glielo rendiamo, sperando che saprà farne miglior uso.

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dieci anni fa [qualcosa resta quel che è].

“Ti sposi, fratello?” “Mi commemoro.” (D. Pennac)

Gli oggetti si curano da soli. E non provano nulla neanche ad essere dimenticati. Non hanno sentimenti, non hanno vita, ed è questo che li rende di molto superiori agli esseri viventi, in particolar modo li rende spaventosamente più adeguati all’esistenza di quanto non lo siano gli esseri umani. Una bottiglia di vetro è più vicina all’essenza divina di quanto non lo siamo noi, è evidente: è perfettamente ciò che deve essere, non deve nulla. Una bottiglia è una bottiglia, dal momento esatto della sua creazione fino a quello della sua distruzione, sempre uguale a sé stessa per l’esistenza. Come il dio di Platone che eternamente mangia e contempla sé stesso, così la bottiglia non conosce distinzioni né funzioni, non vede e non sente.

Perché non ne ha bisogno, esattamente come quell’assoluto da sempre pensato che i più incerti chiamano dio. L’Altro da sé, ciò che appartiene all’altra sfera di esistenza, quella in cui la vita e il farsi non servono, quella che gli uomini da sempre tentano di avvicinare alla propria esistenza-vitale con insensati antropomorfismi e congetture varie quali prove ontologiche ed istituzioni religiose. Ciò che chiamano dio, vuole appunto essere l’Altro, ciò che è ipotizzabile come quanto di più lontano dall’uomo possa esistere, la frontiera irraggiungibile dell’intelletto umano. Ma la direzione in cui si è sempre guardato è evidentemente sbagliata: la vocazione, il rivolgere il cuore verso il cielo cogli altissimi pensieri non porterà mai nessun uomo a dio; piuttosto lo condurrà a quella che è la più specifica natura umana, l’anelito a qualcosa che va oltre sé stessi, che non esiste in ogni caso. Bisogna guardare all’assenza di vita, poiché non è Altro dall’uomo semplicemente ciò che è perfetto, ma ancor più intensamente lo è ciò che non ha vita alcuna. Gli oggetti.

Loro sono l’unica via di coimplicazione di finito e infinità: sono esterni, liberamente intrappolati nelle forme della natura tempo e spazio, ma sono a noi intimi quanto la coscienza, poiché in essa si riflettono come rappresentazioni che noi carichiamo di sentimenti e ricordanze orizzontali e parallele. E non hanno vita propria, essendo l’assenza la via in cui dio si manifesta agli uomini, né presenza. Quello che hai sempre cercato non è dio: non c’è nulla da sapere, che non sia il processo anatomico delle parti.

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