Mýškin.

“Ma in società io sono fuori posto…Non lo dico per amor proprio…Ci ho riflettuto per tutti questi tre giorni, e ho deciso che dovevo assolutamente informarvene sinceramente e onestamente alla prima occasione. Ci sono certe idee, delle idee elevate, sulle quali io non posso permettermi di cominciare a discorrere, giacché mi rendo immancabilmente ridicolo davanti a tutti: poco fa lo stesso principe Šč. Me l’ha ricordato…Non ho né il giusto modo di fare, né il senso della misura; mi vengono alle labbra parole inadatte, che non corrispondono al pensiero, e ciò non fa che mortificare quelle idee.”

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il capitalismo, il carnaio.

è tutto molto semplice, nella sostanza: anticapitalismo, perché il capitalismo è contro la vita, ovvero contro il principio che hanno chiamato l’umano. si va di boicottaggi e consumo critico, perché il nostro essere è essere consumatori, e non può essere che quello il terreno su cui tentare una forma di resistenza. nel sistema capitalistico tutto ha un prezzo, e niente un valore. si è talmente abituati a quantificare che non si vedono più i colori, le calligrafie, la differenza tra una mela e l’altra, neanche a scandagliare tutto un container. tutto merce, è stato spiegato bene. anche il lavoro, anche la fatica, anche i corpi. anche i corpi mentre non sono al lavoro, nei momenti in cui mai si penserebbe di essere parte del gioco del quanto costa. la lettura interessante di ieri, walter benjamin che sostiene il capitalismo come religione. un’ipotesi che non viene spiegata, che a me pare evidente tanto quanto il terrorismo pieno d’amore di savinkov, o il sentimentalismo dei socialisti rivoluzionari russi, e degli esistenzialisti francesi per il comunismo, o la rivoluzione, o la rivolta. non andava spiegato. la religione di oggi è unica, ha assorbito anche le altre, e si chiama capitalismo. leggendo sovrappensiero possono trovarsi delle punte di chiarezza, quelle ripulite a fatica dagli studi e dalle pretese di correttezza formale, da sempre la parte che preferisco di questi pipponi kierkegaardiani (cit.). si trova in una recensione un estratto del testo di benjamin:

1. Il capitalismo è una religione totalmente cultuale. Non c’è dogmatica e non c’è teologia: ogni sua manifestazione si riduce all’esecuzione di un culto (ovvero di una serie di azioni simboliche).2. Il rito del capitalismo è senza termine. Non esiste riposo perché non esiste separazione fra la sfera religiosa e quella laica: non c’è giorno feriale, nel calendario capitalista.3. Tale culto non offre redenzione (e nemmeno consolazione): si avvita semplicemente su sé stesso producendo Schuld – una parola tedesca che significa sia “colpa” che “debito”, e sulla cui ambiguità ruota gran parte dell’analisi di Benjamin.4. Il Dio del capitalismo è un Deus absconditus per eccellenza: siccome non c’è redenzione, la divinità è spinta eternamente lontano, eternamente al limite: la sua visione e la salvezza non sono dunque contemplate.

azioni simboliche. la preghiera del mattino di hegel, ma anche le concrezioni sociali, tutte. non va spiegato. ogni azione periodica è cultuale, è simbolica ma non rimanda ad altro: non può contenere il germe dell’ulteriorità perché il capitalismo – dice benjamin – è una religione senza teologia. nell’assenza di dogmi sta l’infallibilità della nuova religione, perché senza un contenuto il tratteggio libero diventa portante. l’argomento è la forma, il simbolo che basta a se stesso. – taglio la digressione sulla svolta ebraica di un francofortese, perché voglio restare nel sovrappensiero. – il culto è spaventoso, sempre: il rituale è meccanico, deve essere riconoscibile, bisogna dare nomi alle funzioni, un simbolo per un nome e un rito per se stesso. non serve coscienza, né sentimento religioso. né sentimento, e basta. si azzerano fede, orizzonte, prospettiva, dubbi. si è scoperto che il rito è sufficiente per il mantenimento del sistema, e non serve altro. uno che si alzi in mezzo alla messinscena chiedendo di poter credere sinceramente verrà allontanato. dio è talmente lontano che solo l’invocarlo diventa stigmatizzante. lo schizzo di benjamin è profondo e chiaro, e si sovrappone facilmente a tanti fenomeni. il consumo di merci, il consumo di tempo, il consumo dell’altro. la stretta di mano, sto bene grazie, prego, lo voglio, ti amo, basta, ti voglio, per favore, mi manchi. si può averne coscienza oppure no, ma a rifletterci sembra anche questo un rituale dei più spaventosi. il capitalismo della curva ormai discendente porta con sé quella che sembra la legittimazione del culto senza dio: non c’è neanche più bisogno di raccontarsela, per essere gente di chiesa. si fa perché si deve, perché piace, perché si vuole farlo, e basta. che ti metti a chiedere dell’esistenza di dio che neanche nelle bettole di pietroburgo a fine ottocento, che vai cercando, non vedi che si vive tutti bene così. prima o poi ti stroncheranno le gambe, e ti accontenterai di un posto comodo alla funzione religiosa. allora avremo tutti meno problemi, che stanno lì solo a togliere tempo all’evoluzione.

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un disegno.

“Per noi ci vorrebbe qualcosa di più piccolo,

qualcosa come un tango…”

Non ce la faccio più,

ma lo porto lo stesso.

Vorrei scrollarmelo di dosso,

ma so

che non lo lascerò!

Gli archi delle costole non reggono al peso.

Scricchiola la cassa toracica per lo sforzo. (V. Majakovskij)

 

ecco! che le scarpe battano rumorosamente perché non si pensi che non c’è stato nessuno, meglio ancora sarebbe lasciare graffi sul pavimento, non ci interessa chi passerà a pulire. e che ogni sintomo di realtà sia soltanto un errore dell’attore, di quelli tanto stupidi da riuscire a imbarazzare anche un pubblico male informato. ah, che spettacolo il tango signora mia. divertente, tecnica sopraffina, roba da filmare e lasciare impressa per quando ci si sente felici, che almeno ci si ricorda di quanta pochezza, in moneta di verità, sta in quella felicità così poco affascinante. e se la bellezza fosse altrove, invece. tentiamo, almeno a chiacchiere. se fosse proprio nella cura di non lasciare segni per terra, nel mostrarsi con evidente imbarazzo eppure così, brutti e pesanti. ecco, le tegole di un tetto costruito sopra a una struttura di artifici, ma con volontà e impegno tanto sinceri da provocare la pietà di chi passa nelle vicinanze (guarda, quello si è costruito un tetto senza casa). se fosse qui la bellezza, allora sarebbe, che sarebbe? lo stesso un circo, soltanto un po’ meno divertente, silenzioso, senza tendoni a strisce e mostrine sulle giacche? saremmo, tutti, uno spettacolo altrettanto insignificante ma meno carino, un po’ spento, con una regia scadente e attori che pensano veramente di essere dentro i gesti del teatro? si chiama schizofrenia? poco importa, comunque sarà classificato in qualche manuale, questo. segno che una parte di umanità si ritrova così, non sarà tutto un enorme errore collettivo. la bellezza signora mi sa tanto che non apprezza la vicinanza degli imbellettati, non vorrei giudicare così, senza sapere che ne pensa, ma fossi in Lei mi vergognerei di passare al fianco di una scatoletta di brillanti, ben sapendo che di quelli si conosce il prezzo. e il valore di niente, giusto. e nella mediocrità meno originale, lì può starci della bellezza? sarà più felice a guardare un gruppo d’inglesi divertiti e ispirati nel mezzo di un safari ben organizzato o si fermerebbe a guardare dalla finestra di un appartamento appena fuori le mura di una città deserto, a metà pomeriggio, un anziano solo che si osserva allo specchio con la poca luce che resta del giorno? basterebbe capire i bambini, per saperlo. ha mai cercato signora di trovare un senso, fosse anche un segno a matita e niente altro, a un peso che ha costruito da sé? poi ci si ritrova a tentare una ridicola mappatura della bellezza, con l’unica speranza di non far cadere per terra l’ultimo vaso di fiducia che resta sullo scaffale. e tenga a mente questo: c’è da conservare sempre un certo timore verso l’improvvisa attrazione per le finestre chiuse, che lo spazio di una gabbia toracica è sempre almeno il doppio di quello che va a perdersi oltre i vetri.

Kunst Quartier Bethanien, Berlino, 12 marzo 2013

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stilita.

«Ciò che invidio nel sistema è una cosa alquanto modesta (e tanto più paradossale in quanto essa non ha risonanza): molto semplicemente, io voglio, io desidero una struttura. Certo, la struttura non dà la felicità; ma ogni struttura è abitabile, e questa è forse la sua migliore definizione. Io posso benissimo abitare ciò che non mi rende felice; posso lamentarmi e al tempo stesso continuare a restare dove sono; posso rifiutare il senso della struttura che subisco e accettare senza troppo soffrire certi suoi cascami di tutti i giorni […] e di questa continuità del sistema io posso avere il gusto perverso: Daniele Stilita viveva benissimo sulla sua colonna: egli era riuscito a farne (nonostante l’evidente difficoltà) una struttura» (R. Barthes)

 

abitare è un buon concetto. lo spazio risponde per riflesso, filiazione e correnti di polvere ad ogni sguardo di chi abita. abitare è uno dei pochi veri privilegi rimasti. ma abitare pienamente: senza recinzioni o territori d’offesa – o peggio ancora di difesa; è vero che uno spazio chiuso non si lascia vivere liberamente, eppure l’orizzonte sempre a vista non permette quella pausa essenziale al riconoscimento della struttura. ogni tanto le finestre vanno chiuse. diceva il tipo con cui facevo colazione di notte quando ero all’università che chi guarda dal di fuori attraverso una finestra aperta non vede mai tante cose quante ne vede chi guarda una finestra chiusa. il sistema non è mica chiuso, il grande maestro dei sistemi ne aveva fatto qualcosa di più simile a un organismo vivente che si autoriproduce infinitamente, e abbraccia tutto, tanto da costringere la stessa natura ad arretrare di fronte alla propria totale invadenza. ci è caduta la trascendenza, sul sistema, figuriamoci se può trattarsi di un circolo conchiuso, di uno schema quadrettato con un punto zero. e non c’è niente di più abitabile di una realtà incomprensibile, leggibile soltanto per istanti (ur-istanti!), scelta col libero cuore del libero spirito (cit.), che ad  ogni passo risponda qualcosa di sognificante (i refusi a volte fanno bene). ad ogni accenno un richiamo alla condizione generale dell’abitare: c’è una finestra che resta chiusa perchè quello che c’è fuori non compete con l’organismo casa, e perde d’interesse con tanta facilità; c’è un fuori che non fa che rassettare e riempire la casa di polvere nuova e pollini e insetti che rendono i muri vivi; c’è una casa che è la struttura, un sistema che mangia se stesso e si guarda (cit.), e non ha bisogno di capirsi nè di altro, va soltanto mantenuto in movimento; c’è chi abita, il privilegiato, che ha dei punti di riferimento tanto fermi che non si riesce a posizionarli in una forma così poco umana come lo spazio. c’è la negazione di ogni idealità, soprattutto, perchè il più grande pregio dello spazio sta nell’evidenza terribile della materialità.

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Hegel. Scritti teologici giovanili, (frammento di) Frammento.

1794-1800. Scrive Hegel, quello che le montagne sono sassi indifferenti [“La vista di questi massi eternamente morti a me non ha offerto altro che la monotona rappresentazione, alla lunga noiosa, del: è cosí”], quello che la vita di gesù finisce sulla croce, quello del reale razionale, incredibilmente lo stesso che ballava ogni giorno attorno ad un albero piantato in onore della rivoluzione francese, ecco lui.

 

“Unificazione vera, amore vero e proprio, ha luogo solo fra viventi che sono uguali in potenza, e che quindi sono viventi l’uno per l’altro nel modo più completo, e per nessun lato luno è morto rispetto all’altro. L’amore esclude ogni opposizione; esso non è intelletto le cui relazioni lasciano sempre il molteplice come molteplice e la cui stessa unità sono le opposizioni; esso non è ragione che oppone assolutamente al determinato il suo determinare; non è nulla di limitante, nulla di limitato, nulla di finito. L’amore è un sentimento, ma non un sentimento singolo: dal sentimento singolo, poiché è solo vita parziale e non vita intera, la vita si spinge fino a sciogliersi e a disperdersi nella molteplicità dei sentimenti per trovare se stessa in questo tutto della molteplicità. […] Poiché l’amore è un sentimento del vivente, gli amanti possono distinguersi solo in quanto sono mortali, solo in quanto pensano questa possibilità di separazione, non in quanto siano realmente qualcosa di separato, non in quanto il possibile congiunto con un essere sia qualcosa di reale. Negli amanti non vi è materia, essi sono un tutto vivente. Che gli amanti abbiano autonomia e ciascuno abbia un principio suo proprio di vita significa solo che possono morire. Che la pianta abbia sale e parti di terra le quali recano in sé leggi proprie del loro operare, lo dice la riflessione di un estraneo, e significa solo che la pianta può decomporsi. Ma l’amore si sforza di togliere anche questa differenza, questa possibilità come mera possibilità, e di unificare quel che è mortale, di renderlo immortale. Il separabile, finché prima dell’unificazione completa è ancora qualcosa di proprio, crea difficoltà agli amanti: vi è una specie di contrasto fra la completa dedizione, l’unico annullamento possibile, l’annullamento dell’opposto nell’unificazione, e l’autonomia ancora sussistente: la prima si sente impedita dalla seconda. L’amore si sdegna di ciò che è ancora separato, di ciò che è una proprietà: e questo sdegnarsi dell’amore di fronte ad un’individualità è il pudore, il quale non è una reazione subitanea di ciò che è mortale, non è una manifestazione della libertà di conservarsi e di sussistere. In un’aggressione priva di amore, un animo pieno di amore viene offeso da questa ostilità, il suo pudore diviene ira che ora difende solo la proprietà, il diritto. Se il pudore non fosse un effetto dell’amore, che ha la forma dello sdegno solo perché vi è qualcosa di ostile, ma fosse qualcosa per sua natura ostile che volesse salvaguardare una proprietà attuabile, si dovrebbe dire che il massimo pudore ce l’hanno i tiranni, o le ragazze che non concedono senza denaro le loro grazie, oppure le donne vanitose che vogliono incatenare con i loro vezzi. Né gli uni né le altre amano: la loro difesa di ciò che è mortale è il contrario dello sdegno che si ha per esso: essi attribuiscono a quel che è mortale un valore in sé, sono cioè senza pudore. Un animo puro non si vergogna dell’amore, ma si vergogna che esso sia incompleto: l’amore si rimprovera che vi sia ancora una forza, un qualcosa di ostile che ne ostacola il compimento. Il pudore subentra solo con il ricordo del corpo, con la presenza personale, col sentire l’individualità: esso non è paura per ciò che è mortale, che è solo proprio, ma è paura del mortale, del proprio, paura che svanisce via via che il sensibile è ridotto sempre a meno dall’amore. L’amore infatti è più forte della paura, non ha paura della propria paura, ma accompagnato da essa toglie le separazioni, temendo solo di trovare un’opposizione che gli resista o che resti addirittura salda. […]. Quel che c’è di più proprio si unifica nel contatto e nelle carezze degli amanti, fino a perdere la coscienza, fino al toglimento di ogni differenza: quel che è mortale ha deposto il carattere della separabili, ed è spuntato un germe dell’immortalità, un germe di ciò che da sé eternamente si sviluppa, un vivente. […]”

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