«Ciò che invidio nel sistema è una cosa alquanto modesta (e tanto più paradossale in quanto essa non ha risonanza): molto semplicemente, io voglio, io desidero una struttura. Certo, la struttura non dà la felicità; ma ogni struttura è abitabile, e questa è forse la sua migliore definizione. Io posso benissimo abitare ciò che non mi rende felice; posso lamentarmi e al tempo stesso continuare a restare dove sono; posso rifiutare il senso della struttura che subisco e accettare senza troppo soffrire certi suoi cascami di tutti i giorni […] e di questa continuità del sistema io posso avere il gusto perverso: Daniele Stilita viveva benissimo sulla sua colonna: egli era riuscito a farne (nonostante l’evidente difficoltà) una struttura» (R. Barthes)
abitare è un buon concetto. lo spazio risponde per riflesso, filiazione e correnti di polvere ad ogni sguardo di chi abita. abitare è uno dei pochi veri privilegi rimasti. ma abitare pienamente: senza recinzioni o territori d’offesa – o peggio ancora di difesa; è vero che uno spazio chiuso non si lascia vivere liberamente, eppure l’orizzonte sempre a vista non permette quella pausa essenziale al riconoscimento della struttura. ogni tanto le finestre vanno chiuse. diceva il tipo con cui facevo colazione di notte quando ero all’università che chi guarda dal di fuori attraverso una finestra aperta non vede mai tante cose quante ne vede chi guarda una finestra chiusa. il sistema non è mica chiuso, il grande maestro dei sistemi ne aveva fatto qualcosa di più simile a un organismo vivente che si autoriproduce infinitamente, e abbraccia tutto, tanto da costringere la stessa natura ad arretrare di fronte alla propria totale invadenza. ci è caduta la trascendenza, sul sistema, figuriamoci se può trattarsi di un circolo conchiuso, di uno schema quadrettato con un punto zero. e non c’è niente di più abitabile di una realtà incomprensibile, leggibile soltanto per istanti (ur-istanti!), scelta col libero cuore del libero spirito (cit.), che ad ogni passo risponda qualcosa di sognificante (i refusi a volte fanno bene). ad ogni accenno un richiamo alla condizione generale dell’abitare: c’è una finestra che resta chiusa perchè quello che c’è fuori non compete con l’organismo casa, e perde d’interesse con tanta facilità; c’è un fuori che non fa che rassettare e riempire la casa di polvere nuova e pollini e insetti che rendono i muri vivi; c’è una casa che è la struttura, un sistema che mangia se stesso e si guarda (cit.), e non ha bisogno di capirsi nè di altro, va soltanto mantenuto in movimento; c’è chi abita, il privilegiato, che ha dei punti di riferimento tanto fermi che non si riesce a posizionarli in una forma così poco umana come lo spazio. c’è la negazione di ogni idealità, soprattutto, perchè il più grande pregio dello spazio sta nell’evidenza terribile della materialità.