Pensavo prima o poi di parlarvi di questa storia dei cani nei film russi, e non solo russi in verità. É una faccenda complessa, che ha a che vedere con il cinema ovviamente, con il senso di sé, con l’incedere della sensazione dentro lo strazio conchiuso del’esperienza da spettatore; non con i cani, stranamente; non più di tanto.
Dak era il cane di Andrej Arsenevič Tarkovskij. Compare in un paio di suoi film, negli altri ci sono cani diversi; uno dei miei preferiti è il boxer marrone che compare in Soljaris – dopo la dichiarazione d’amore di Kelvin, amore per la sofferenza che rende umana la vita, amore per l’amore – immobile il cane, seduto su un comodino a guardare nulla di rilievo. É un taglio. É la terra di contro alle evoluzioni epicicliche di un cuore umano che vorrebbe guardare altrove senza averne i mezzi. «Fino ad oggi l’umanità, la terra, non ha avuto modo di raggiungere l’amore. capisci cosa intendo? siamo così pochi, pochi milioni al massimo. forse la ragione per cui siamo qua è quella di imparare a concepire gli esseri umani come una ragione per amare». Poi compare il cane, sul comodino, dentro un modulo spaziale popolato di fantasmi che resuscitano senza soluzione. Come guardare fuori da una finestra e vedere la natura più familiare, la casa paterna e i difetti perfettamente noti delle pareti, e sentire distintamente come fuori luogo il bisogno d’altro e con ciò se stessi: il cane. Un altro cane significativo, in Tarkovskij, è in Stalker. É Dak. Dak va a svegliare lo Stalker dopo il sogno; cammina su una pozza d’acqua, lo raggiunge, si accomoda vicino a lui; è tremendamente materno. Li seguirà infatti fino a casa – lo Stalker, la moglie salvatrice, la figlia marchiata dal Signore. L’inno alla Gioia. Non è un simbolo, non si tratta di simbolizzare né significare niente d’ulteriore al vissuto: il cane sta là ad assorbire una sensazione, è una forma. Forma intesa in senso filosofico, lukacsiano, senza remore – ma questa è una indicazione soltanto.
Il cane, non soltanto in Tarkovskij, è sempre talmente fuori luogo da costringere l’intenzione: il cane che passeggia sotto la pioggia scrosciante, infinita, in Karhozat sta là per introdurci nel locale, per presentarci al canto disperato di colei che non merita neppure un nome. Passeggia, il cane. Ed in maniera del tutto evidente, è un taglio in movimento su una tela che parla d’altro. Non entra in una relazione costruttrice o fosse anche soltanto armonica col resto; piuttosto l’insegna al neon, la sonorizzazione eccessiva della pioggia, recano meno disturbo all’immagine movimento. Si è costretti a notarlo, sto cane, tanto poco c’entra col resto della sensazione veicolata dalle reti di sequenze lentissime di Béla Tarr. Ecco, qui è semplice notare la differenza tra la forma del cane in Tarkovskij e la forma del cane in Tarr, che non è russo, o in Sokurov, o in Mikhalkov, o nell’animazione russa dagli anni 70 in poi in cui possiamo garantire compaia quasi sempre un cane, senza il bisogno di fare delle liste parascientiste. É sempre un taglio, ma in Tarkovskij parla la lingua inevitabile della Fede di Giobbe; altrove parla soltanto della illiceità di essere lì, dell’essere fuori posto, di troppo o di sopresa, dell’occupare uno spazio non dovuto. Per cosa poi? Passeggiare, al limite dell’insenziente, camminare, guardare, assorbire un po’ d’acqua. Eppure non chiede permesso, non ne ha bisogno. E gli uomini? Ecco l’intenzione madre del pensiero spettatore nel momento in cui compare il cane. Ecco la distanza tra Tarkovskij, che crede in Dio, nell’Amore e nell’Uomo, e gli altri russi – e non russi, e forse noi.
Interessante pure il cane de La Ballata di Narayama. Ma non c’entra.
In Sokurov il cane arriva a dare fastidio, ma è pur vero che Sokurov ci sta educando ad un violento rapporto con i suoi film; ci si riferisce infatti ai cani che si palesano prima di Arca Russa, prima della protesta di Sokurov contro il cinema. In Salva e Custodisci, il cane è stupido; non si voglia mai annettere a qualcosa un simbolismo!, ma anche volendolo qua non si troverebbe. Si trova solo la forma di un insetto pruriginoso che potrebbe non esistere affatto, eppure esiste; che occupa col suo nero uno spazio fisico sulla pellicola, e si muove; una cosa viva, addirittura. Che potrebbe anche essere la concezione dell’uomo di un Sokurov, restando su un piano del discorso talmente ipotetico e leggero che non varrebbe la pena neanche d’insistere.
E Tarkovskij? In Tarkovskij il cane è stato perdonato per la sua esistenza. Arriva soltanto quando è il momento di ricordarcelo. Il sacrificio di Dio è per giustificare l’esistenza degli uomini, l’Amore la discolpa. E laddove il sacrificio di sé non basta, neanche quello di Alexander che lava col fuoco la sua casa e rinuncia al piccolo uomo senza parola, nasce la preghiera. Che è più che altro un’invocazione, cui pure il cane è chiamato a partecipare. E anche la pioggia, le mele, i cavalli, i bambini, i folli, i tartari, la neve nelle chiese.